GIOVANNI SANSONE

Giudice al Tribunale di Trieste

 

 

LE REVOCATORIE NEI CONFRONTI DELLE BANCHE

 

 

SOMMARIO

 

  1. Crisi dell'impresa e ruolo della revocatoria fallimentare
  2. La revocabilità delle rimesse in conto corrente nella giurisprudenza: la distinzione tra conto corrente passivo e conto corrente scoperto
  3. Segue: il saldo di riferimento
  4. Segue: il fido rilevante
  5. La revocabilità dei giroconto
  6. Le operazioni bilanciate
  7. Le critiche all'orientamento giurisprudenziale della revocatoria delle rimesse
  8. La tesi preferibile per la identificazione delle rimesse revocabili
  9. Garanzie "bancarie" e revocatoria fallimentare
  10. Aspetti probatori relativi alla conoscenza dello stato di insolvenza da parte delle banche
  11. La revocatoria fallimentare nei progetti di riforma della legge fallimentare

 

 

 

1. Crisi dell'impresa e ruolo della revocatoria fallimentare

Alcune rapide considerazioni preliminari sul tema che mi è stato cortesemente assegnato mi sembrano opportune.

Le considerazioni riguardano: a) il rapporto tra impresa e sistema finanziario; b) la caratterizzazione del modello di impresa attuale.

Ritengo che l'esame di questi due aspetti consenta al giudice di avere consapevolezza della realtà socio-economica e delle conseguenze su di essa dell'intervento che gli viene richiesto; gli offra inoltre, utili indicazioni per pervenire alle soluzioni più appropriate nell'ambito dei contenzioso che vede gli istituti di credito convenuti in revocatoria dai curatori e dai commissari straordinari, un contenzioso sempre in crescita negli ultimi venti anni.

Quanto al rapporto tra impresa e sistema finanziario - rapporto che ha un ruolo cruciale per la vita della impresa - occorre considerare che esso è nel nostro paese caratterizzato dallo squilibrio della posizione degli istituti di credito nella combinazione tra rischio assunto e capacità di indirizzo e di controllo, squilibrio che non si riscontra, invece, in altri paesi.

La struttura finanziaria delle imprese italiane è orientata verso l'indebitamento bancario senza, però, che gli istituti di credito abbiano, sotto il profilo formale, alcun potere di indirizzo e di gestione sull'impresa finanziata. In Germania, dove pure la struttura finanziaria è orientata verso l'indebitamento bancario, ad un elevato rischio assunto, corrisponde una forte capacità di indirizzo (posizione di azionista, possibilità di esprimere membri nel consiglio di amministrazione). Nei paesi anglosassoni, poi, è limitata l'esposizione diretta della banca come finanziatrice in quanto il sistema finanziario è orientato al mercato ove vengono attinte le risorse finanziarie ed è ridotta la capacità di indirizzo.

Questo squilibrio viene ricondotto alla struttura societaria delle nostre imprese caratterizzata da un elevato livello di concentrazione dell'azionariato (la connotazione familiare è dominante) e da un limitato livello di patrimonializzazione.

Dalla connotazione familiare deriva l'esigenza di chi ha il controllo della società di evitare perdite o comunque riduzioni dei propri poteri di controllo. Questo comporta una scarsa propensione da parte di chi esercita il controllo della società a ricorrere a quegli strumenti di patrimonializzazione che conducono ad un sostanziale allargamento della base azionaria, e quindi una scarsa mobilità del controllo, e, per converso, un elevato ricorso al debito finanziario reso possibile, generalmente, dalla concessione di garanzie extra-aziendali da chi detiene il controllo. Questo spiega perché il grado di indebitamento delle imprese italiane è quasi il doppio dì quello delle imprese operanti negli altri paesi della comunità, e doppio sia il grado di sofferenza.

La connotazione familiare comporta, poi, quasi sempre una opacità dell'impresa, opacità che rende difficile la valutazione del rischio di credito ed accentua l'asimmetria informativa tra la banca e l'impresa che chiede di essere affidata.

Con riguardo alla caratterizzazione del modello d'impresa attuale, occorre considerare che esso è ben diverso da quello che aveva presente il legislatore del '42.

Anzitutto la composizione del patrimonio destinato all'esercizio dell'impresa è notevolmente diversa: nell'impresa di oggi la componente dei beni materiali è sempre meno rilevante, mentre peso crescente assumono i beni immateriali; il progresso tecnologico ha fatto assumere un'importanza sempre maggiore alla organizzazione del complesso produttivo ed alle capacità tecniche acquisite. Deve poi sottolinearsi che, diversamente dal passato, l'imprenditore ha sempre più spesso soltanto la disponibilità e non la proprietà degli strumenti di produzione. Spesso, inoltre, i fattori della produzione impiegati nell'impresa non sono disgregabili, conservano il loro valore finché utilizzati in un'attività produttiva, ma non sono suscettibili di essere rimossi, di essere spostati da una attività ad un'altra diversa attività. In definitiva la ricchezza dell'impresa si sostanzia non tanto nei macchinari e nei fabbricati, dei quali come s'è detto l'imprenditore potrebbe avere solo la disponibilità e non la proprietà, quanto piuttosto si realizza nella sua dinamica e cioè nella sua capacità a produrre ricchezza frutto dell'organizzazione di quei beni strumentali all'esercizio della attività economica.

In questo mutato quadro economico appare evidente che, in una situazione di crisi dell'impresa, la preservazione del complesso produttivo costituisce un obiettivo di sicuro interesse per tutti i soggetti coinvolti nella crisi, mentre la disgregazione dell'azienda e la liquidazione atomistica dei singoli beni non può consentire ai creditori se non un riparto dei tutto insoddisfacente e sacrifica dei tutto gli interessi degli altri soggetti coinvolti. La cessazione dell'attività e la liquidazione dell'impresa in crisi non è più quella più conforme all'interesse sociale come si riteneva in passato sull'assunto che in questo modo si sarebbero liberate le risorse aggregate nell'azienda inefficiente per essere rimesse in circolazione e farle affluire verso impieghi più efficienti e produttivi con vantaggio, appunto, del sistema economico nel suo complesso e quindi dell'intera collettività.

Oggi la realizzazione più soddisfacente dei diritti dei creditori può avvenire attraverso il risanamento della impresa nelle sue possibili forme di risanamento in capo allo stesso imprenditore e di risanamento mediante la riallocazione del controllo dell'impresa a terzi che abbiano capacità imprenditoriali e possibilità finanziarie. La liquidazione rappresenta una soluzione residuale ed eccezionale da attuarsi in caso di evento infruttuoso del processo di risanamento o quando questo risulta impossibile da realizzare.

In un'ottica ben diversa, come è noto, si muove l'attuale legge fallimentare che considera la liquidazione dell'impresa come la soluzione tipica della crisi dell'impresa, mentre il risanamento, per la cui realizzazione è prevista l'amministrazione controllata, è considerato un beneficio concesso all'imprenditore, il solo ad essere legittimato all'attivazione della procedura.

La disciplina della revocatoria fallimentare ed i diversi possibili modi di intenderne la portata risentono non poco della concezione che si assume sulla funzione delle procedure concorsuali.

L'interpretazione del sistema revocatorio della nostra legge fallimentare ha dato luogo al formarsi di due teorie: la teoria indennitoria e la teoria antindennitoria.

Per la prima il presupposto oggettivo della revocatoria fallimentare risiederebbe nel danno al patrimonio del debitore recato dagli atti soggetti a revocatoria.

La seconda, invece, ritiene che il requisito del pregiudizio sia estraneo alla disciplina della revocatoria fallimentare che avrebbe invece lo scopo e l'effetto di realizzare una ripartizione paritaria delle perdite fallimentari tra una cerchia di soggetti più ampia di quella comprendente i creditori insoddisfatti al momento della dichiarazione di fallimento.

In una prospettiva di valutazione socio-economica della incidenza del rischio della revoca sull'attività d'impresa, sicuramente la teoria indennitoria si presenta come meglio rispondente alle esigenze di risanamento dell'impresa in crisi. Raffrontato ad un modello antindennitodo che prevede la revoca di tutti gli atti compiuti dall'imprenditore insolvente, la tesi indennitoria propone una forma che riduce il rischio in quanto subordinando la revoca al danno, consente la gestione ordinaria.

Con riguardo alla revocatori nei confronti delle banche occorre considerare che l'esercizio della funzione creditizia colloca le banche istituzionalmente in una funzione creditoria di somme di denaro, sicché l'istituto in esame riguarda essenzialmente i pagamenti.

E poiché quasi tutte le operazioni sono regolate in conto corrente, si comprende come i versamenti sui conti correnti del fallito costituiscano l'ipotesi di pagamento revocabile quasi esclusiva per la quale le banche sono convenute dai curatori.

 

 

2. La revocabilità delle rimesse in conto corrente nella giurisprudenza: la

distinzione tra conto corrente passivo e conto corrente scoperto

 

Come è noto, il conto corrente del fallito può essere alimentato da versamenti effettuati dallo stesso fallito o da terzi, i quali costituiscono la provvista che viene utilizzata dalla banca per onorare gli atti di disposizione del fallito.

Nessun problema sorge, sotto il profilo dell'applicazione della disciplina della revocatoria, allorché le rimesse sul conto siano andate ad alimentare un conto che presentava un saldo creditore a favore del correntista. I versamenti effettuati sul conto costituiscono in questo caso aumento di disponibilità a favore del fallito e in nessun modo vanno intesi quali pagamenti alla banca che non è creditrice del fallito, bensì sua debitrice per il saldo attivo del conto.

Il problema della revocabilità delle rimesse in conto corrente si pone, invece, nei confronti della banca, per le rimesse che siano affluite su un conto del fallito che presentava un saldo a debito dei correntista: in questo caso la rimessa può assumere la natura di pagamento del debito in essere del correntista nei confronti della banca.

Sino al 1982 la giurisprudenza riteneva revocabili tutte le rimesse affluite su un conto che presentava un saldo a debito del correntista poi fallito (Cass. 709/1980; 5836/1978; 1333/1976).

Con la nota sentenza Cass. 18-X-1982 n. 5413 è stato inaugurato un orientamento più restrittivo rispetto a quello precedente che si è sostanzialmente mantenuto inalterato sino ad oggi.

Secondo questo orientamento, in tema di revocatoria delle rimesse in conto corrente va operata la distinzione tra conto corrente passivo e conto corrente scoperto. E' passivo il conto in cui il correntista opera nei limiti di un'apertura di credito concessa; è scoperto quello che non è assistito da una delibera formale di apertura di credito oppure opera oltre i limiti di essa.

Nel primo caso (conto passivo) è esclusa la revoca delle rimesse affluite sul conto in quanto non si attribuisce ad esse carattere solutorio poiché la funzione del versamento sul conto è quella di creare provvista, cioè disponibilità.

Nel secondo caso invece (conto scoperto) è ammissibile la revoca di tutte le rimesse affluite sul conto che hanno riportato l'esposizione nei limiti dell'affidamento, poiché in tali casi il credito della banca è considerato immediatamente esigibile e, conseguentemente - si ritiene - ogni versamento ha carattere solutorio.

Secondo questa tesi poi si ha conto scoperto anche quando gli sconfinamenti siano stati tollerati dalla banca, e pure siano ripetuti e costanti, per avere la banca tacitamente o per mera tolleranza o per facta concludentia consentito al correntista di operare oltre il limite del fido. In tutti questi casi, si rileva, la disponibilità concessa sarebbe occasionale e quindi non potrebbe ravvisarsi un vero e proprio affidamento: mancherebbe, si osserva, un obbligo giuridico della banca di concedere il credito, non esistendo una delibera formale in tal senso (Cass. 17-XII-1994 n. 10869).

 

 

3. Segue: Il saldo di riferimento

 

Nell'applicazione pratica la tesi della giurisprudenza pone il problema di stabilire quando un conto corrente è passivo oppure scoperto. Il problema si pone in conseguenza delle diverse tecniche di contabilizzazione delle operazioni in conto corrente e della possibilità del correntista di godere di altre linee di credito oltre quella dell'apertura di credito.

Con riguardo al primo problema - quello della identificazione del saldo di riferimento - occorre tenere presente che le operazioni di conto corrente vengono contabilizzate dalla banca in due diversi documenti: l'estratto conto, in cui vengono riepilogate le operazioni in ordine cronologico e la staffa (o scalare) che è il prospetto nel quale le operazioni registrate cronologicamente nell'estratto conto vengono riclassificate in ordine di valuta.

Via via che il cliente ordina alla banca l'esecuzione di operazioni per suo conto, la banca addebita o accredita cronologicamente le operazioni sul conto corrente del cliente. Ogni operazione è quindi contrassegnata dalla data della sua effettiva esecuzione (data contabile).

La differenza, ad una certa data (contabile), tra il totale delle operazioni a debito e il totale delle operazioni a credito del cliente viene definito saldo contabile.

Ad ogni operazione registrata in conto corrente, tuttavia, - come s'è detto - la banca assegna una data valuta, data che segna l'inizio della maturazione degli interessi attivi (se l'operazione è a credito del cliente) o degli interessi passivi (se essa è a debito del cliente).

La differenza, ad una certa data (valuta) , tra il totale delle operazioni a debito e il totale delle operazioni a credito, viene definito saldo liquido.

E' evidente che data contabile e data valuta frequentemente non coincidono: e così capita che il conto presenti un saldo contabile a credito e un saldo liquido a debito, situazione definita "scoperto per valuta".

La giurisprudenza, tuttavia, ha ritenuto che "la copertura o meno del conto va accertata con riferimento al saldo disponibile, da determinarsi in ragione delle epoche di effettiva esecuzione, da parte della banca, degli incassi e delle erogazioni, non giù con riferimento esclusivo al saldo contabile (che riflette le registrazioni delle operazioni in ordine puramente cronologico), né al saldo per valuto (che è effetto del posizionamento delle partite unicamente in base alla data di maturazione degli interessi)" (Cass. 22-3-1994 n. 2744; Cass. 15-XI- 1994 n. 9591; Cass. 26-1-1999 n. 686). Il saldo disponibile trae origine dal fatto che all'obbligo della banca di incassare non si associa l'obbligo di consentire l'immediata disponibilità prima della verifica e dell'effettivo incasso - Ai sensi dell'art. 4 N.U.B. - invero, l'importo degli assegni bancari, circolari, vaglia o altri titoli similari è accreditato con riserva di verifica s. b. f.. L'importo non è disponibile prima dell'incasso. E poiché questo saldo non risulta contabilizzato in alcuno dei documenti (estratto conto e c.d. staffa) inviati dalla banca al cliente, la giurisprudenza ha poi rilevato che "sul piano probatorio, tuttavia, non risultando dall'estratto conto l'effettivo saldo disponibile, elementi presuntivi di prova possono desumersi sia dalla data di registrazione in conto delle operazioni (limitatamente a quelle di "avere" del correntista, costituite da versamenti e bonifici in contanti, nonché ai prelevamenti in contanti o a mezzo assegni), sia dai dati ordinati per valuto (limitatamente ai versamenti in conto di titoli di credito, quanto meno, alla data della valuta)" (Cass. 22-3-7994n. 2744).

 

 

4. Segue: Il fido rilevante

 

Sempre al fine di stabilire se un conto è passivo oppure scoperto e quindi se le rimesse affluite sul conto hanno carattere solutorio oppure ripristinatorio della provvista, è importante l'identificazione del fido rilevante, per valutare se il conto, all'atto delle singole rimesse, sia o meno scoperto.

L'esigenza sempre più viva degli imprenditori di rendere liquidi i propri crediti prima della scadenza, ha dato impulso alla diffusione di forme tecniche di prestito volte allo smobilizzo dei crediti commerciali. Le banche, del resto, hanno sempre visto con favore la concessione di credito supportata da sottostanti negoziazioni commerciali; si ritiene infatti che normalmente queste operazioni devono considerarsi autoliquidantisi, atteso che, sin dal momento dell'erogazione dei prestito, risulta già individuata la relativa fonte di rimborso, che prescinde dalla cooperazione dei debitore.

Per queste forme di prestito le banche accordano all'imprenditore altre linee di credito quali, generalmente, quelle per anticipazioni salvo buon fine dei credito di fornitura, su ricevute bancarie e/o su fatture.

E' stato così sollevato il problema dell'ammissibilità di una valutazione globale degli affidamenti, sostenendosi che si sarebbe in presenza di scopertura solo quando il cliente avesse interamente utilizzato tutte le linee di credito a lui accordate e la sua esposizione risultasse superiore all'importo globale dei fidi concessigli.

La giurisprudenza esclude che si possa dare luogo al "cumulo dei fidi" nei termini sopra prospettati e considera revocabili le rimesse che abbiano ridotto una esposizione eccedente il limite dell'affidamento concesso in forma di apertura di credito in conto corrente, benché in ipotesi il cliente goda contemporaneamente anche di uno o più affidamenti per anticipazioni su crediti di fornitura, i cui importi, se sommati a quello dell'apertura di credito in conto corrente renderebbero il conto, in cui si colloca l'esposizione dello stesso, solo "passivo", e non già "scoperto".

La giurisprudenza nega che si possa procedere al "cumulo dei fidi" principalmente nell'assunto che l'affidamento per anticipazioni non avrebbe natura di apertura di credito bancario, per come definito e disciplinato dall'art. 1842 C.C., in quanto non avrebbe l'attitudine a costituire in favore dell' "accreditato" una "disponibilità equivalente a quella garantita dall'apertura di credito bancario ordinario".

Il "fido per smobilizzo crediti", secondo la giurisprudenza, è fonte, per l'istituto di credito, dell'obbligo di accettazione per l'anticipazione, entro un ammontare predeterminato, i crediti portati dai titoli che l'affidatario presenta (Cass. 30-1-1988 n. 970; Cass. 20-5-1997 n. 4473).

In qualche decisione la giurisprudenza ha preferito basare la distinzione degli effetti giuridici che discendono dal "fido per smobilizzo crediti" dagli effetti giuridici dell'apertura di credito sulla circostanza che i primi sono condizionati alla effettiva presentazione dei crediti per la concessione della pattuita anticipazione. (Cass. 6-9-7997 n. 8662).

Quest'ultimo criterio di distinzione viene da tutti condiviso riconoscendosi che la disponibilità utilizzabile dal correntista non può essere ricavata, in linea di principio, dalla semplice somma degli affidamenti eventualmente concessi per anticipazioni di crediti dell'importo dell'apertura di credito in conto corrente, occorrendo quanto meno che il cliente presenti i titoli o la "carta commerciale" chiedendone l'anticipazione.

Muovendo dalla premessa che un affidamento per anticipazione di crediti non attribuisce, di per sé, disponibilità alcuna, occorre invece chiedersi se la disponibilità si acquisisce con la presentazione dei titoli o con l'ammissione dei titoli all'anticipazione, o - ancora - quando l'anticipazione, come di regola avviene, viene regolata in conto corrente - con l'accredito nel conto corrente del netto ricavo -.

La Cassazione, sull'assunto che l'operazione di smobilizzo si concreterebbe "in un mandato alla banca di riscuotere il titolo ed in un accredito del relativo importo in conto corrente, subordinato alla condizione sospensiva del salvo incasso" (Cass. 21-1-2000 n. 656; 8485/94; 5326/97) ritiene che 'l’importo anticipato non sarebbe disponibile se non dopo che il titolo è stato pagato" (Cass. 656/2000, 7615/96; 13160/92).

Secondo la Suprema Corte, pertanto, con l'utilizzo del fido per smobilizzo dei crediti non si crea una disponibilità aggiuntiva a quella costituita dall'apertura di credito.

Peraltro l'accreditamento derivante dal netto ricavo dei titoli anticipati è paragonabile a qualunque altra rimessa affluita sul conto ed è soggetto pertanto allo stesso trattamento: "non rileva il fatto che l'accreditamento sia stato disposto dalla stessa banca, a seguito dell'accettazione dei titoli presentati allo sconto dal cliente, perché la revoca dei pagamenti è finalizzata non già a sanzionare un comportamento, bensì a ripristinare la par condicio creditorum" (Cass. 26-5-1997 n. 4473).

Questa interpretazione giurisprudenziale è stata criticata dalla dottrina sul rilievo anzitutto che con la anticipazione la banca espleta un'operazione di credito e non un servizio di incasso. Secondo la dottrina la disponibilità si acquisisce con la presentazione perché è con questa che, sulla base del fido per smobilizzo il cliente ha la disponibilità della somma anticipata.

A questo punto sembra opportuno considerare le modalità di contabilizzazione delle operazioni di anticipazioni su crediti seguite dalle banche.

Le modalità più diffuse sono essenzialmente due:

  1. L'accredito diretto in conto corrente (c.d. conto unico).

Con questo sistema la banca mette a disposizione del cliente, sul suo conto corrente, l'ammontare dei crediti di cui viene chiesta l'anticipazione. Mentre la registrazione avviene lo stesso giorno dell'operazione, la valuta dei l'accredita mento è fissata nella data di scadenza dei titoli aumentata di un numero fisso di giorni. E' evidente che l'accredito di somme con valuta spesso alquanto posticipata rispetto alla data di esecuzione della operazione determina la formazione di scoperti per valuta sui quali il cliente corrisponderà alla banca interessi passivi proporzionali alla durata dello scoperto stesso. E' parimenti evidente che comunque il cliente pagherà interessi solo in relazione all'effettivo utilizzo della linea di credito.

b) Il conto anticipi fruttifero o conto indisponibile.

Questa forma tecnica prevede, a differenza della precedente, la tenuta di un conto aggiuntivo, detto conto anticipi, nel quale vengono accreditati, con valuta successiva alla data di presentazione della distinta (valuta adeguata), importi dei titoli e contestuale addebito - con valuta di giornata – di questi importi nel medesimo conto al fine di "girarla" a credito sul conto corrente bancario. Nel caso in cui la concessione di credito giunga interamente a buon fine, nessun'altra partita transiterà nei due conti. Viceversa, l'importo degli eventuali insoluti viene addebitato direttamente nel conto corrente di corrispondenza.

Dalla dinamica degli addebiti e accrediti sul conto anticipi è facile rilevare che la valuta dei primi anticipa sistematicamente quella dei secondi e che, dunque, si formano nel conto anticipi fruttifero degli scoperti: la differenza sostanziale rispetto alla precedente forma tecnica è che, mentre nella prima gli scoperti si formano solo in caso di effettivo utilizzo della somma accreditata, in questa seconda forma tecnica gli scoperti sono predeterminati e non commisurano il costo dell'effettivo utilizzo da parte dell'impresa.

La dottrina ritiene che la concomitanza di una apertura di credito bancario in conto corrente e di un affidamento per anticipazioni di crediti consente una disponibilità aggiuntiva rispetto a quella assicurata al cliente dall'apertura di credito bancario se e nei limiti in cui l'affidamento venga concretamente utilizzato nelle forme convenute. Le rimesse, pertanto, che venissero effettuate sul conto corrente "ordinario" nel periodo intercorrente tra l'accreditamento dell'importo dei crediti anticipati e la loro scadenza, avrebbero natura ripristinatoria.

Qualora sia stato utilizzato l'accredito diretto in conto corrente (c.d. conto unico) poiché, come s'è detto, l'accreditamento avviene con valuta della data di scadenza dei titoli, ma si prevede che il cliente possa utilizzare sul conto corrente ordinario la disponibilità così attribuitagli dalla data della registrazione dell'operazione, il carattere solutorio potrà essere attribuito alla "rimessa" rappresentata dal l'accreditamento dei crediti anticipati con valuta della data di scadenza dei titoli, ove e nei limiti in cui in quel momento il saldo debitore risulti eccedente l'ammontare dell'apertura di credito in conto corrente ordinario, mentre per la revocabilità delle rimesse affluite nel periodo da quando s'è creata la disponibilità aggiuntiva alla scadenza dei titoli si dovrebbe tenere conto anche di questa disponibilità aggiuntiva.

Qualora la banca utilizzi la forma tecnica del conto anticipi, il carattere solutorio non potrà essere attribuito alla "rimessa" rappresentata dall'accreditamento, attraverso operazione di giroconto, dei crediti anticipati sul conto corrente ordinario, ma agli incassi confluiti nel conto anticipi, che si debbano ritenere come affluiti sul conto ordinario atteso il collegamento funzionale dei due conti, ove e nei limiti in cui, in quel momento, il saldo debitore risulti evidente l’ammontare dell’apertura di credito in conto corrente ordinario.

 

 

5. La revocabilità del giroconto

 

Un’operazione in ordine alla quale si pone nella pratica il problema della sua natura solutoria e quindi della sua revocabilità è il giroconto bancario.

Il termine giroconto designa il trasferimento di una somma di denaro da un conto corrente ad un altro conto corrente.

Il giroconto può avvenire tra più conti dello stesso correntista ovvero tra un conto del correntista e quello di un terzo e generalmente trae origine da un ordine dato dal correntista alla propria banca; in questa operazione la dottrina prevalente ha individuato una delegazione per alcuni promittendi ed altri solvendi.

Il giroconto può tuttavia derivare anche da una autonoma iniziativa della banca che procede essa stessa al trasferimento di somme da un conto ad un altro. L'iniziativa della banca non rappresenta tuttavia il risultato di una delegazione, bensì della compensazione legale o volontaria avvenuta tra la banca e il correntista.

Occorre, infine, distinguere il giroconto dallo "storno di scrittura". Quest'ultimo consiste nell'annotazione a debito su un conto di importi precedentemente annotati erroneamente a credito (o viceversa). Si tratta, cioè, di un annullamento per errore di operazioni precedentemente effettuate, alle quali, pertanto, non può essere attribuita natura né di pagamento né di prelievo con effetti neutri ai fini della revocatoria delle rimesse.

Qualora il giroconto operi tra soggetti diversi, e cioè tra il correntista ed un terzo, non vi è nessun dubbio che esso rappresenti una rimessa sul conto corrente intrattenuto dal terzo, è cioè un pagamento a favore del terzo la cui revoca è disciplinata dalle regole generali in materia di rimesse.

Alla stessa disciplina è ovviamente assoggettato il bonifico tra due conti dello stesso soggetto intrattenuti presso due banche diverse. La rimessa sul conto corrente della banca beneficiaria del pagamento sarà revocabile secondo la disciplina generale.

Viceversa, quando il giroconto riguardi due conti intrattenuti dal medesimo soggetto presso la stessa banca il giroconto può costituire esecuzione di una compensazione legale o volontaria tra la banca e il correntista. Ed invero, qualora tra la banca e il cliente sussistono più rapporti, i saldi attivi di uno o più conti ben possono compensarsi con quelli passivi di altri conti ai sensi dell'art. 1853 C.C..

Infatti in questo caso si hanno crediti e debiti immediatamente esigibili: il credito dato dal saldo scoperto in favore della banca ed il debito della stessa, anch'esso immediatamente esigibile costituito dal saldo attivo.

Ciò che si richiede ai fini della compensazione è che i conti correnti dai quali emergono le partite reciproche sulle quali s'intende far valere la compensazione devono essere tra loro autonomi. Se i due conti sono autonomi, la compensazione non è revocabile.

Diverso è il caso in cui i due conti presentano un evidente collegamento funzionale. E' il caso dei conto costituito ad hoc per farvi affluire i versamenti di terzi per poter compensare il saldo attivo con quello passivo del conto principale utilizzato per gli addebiti.

 

 

6. Le operazioni bilanciate

 

La giurisprudenza più recente riconosce che non tutti indistintamente gli accreditamenti sul conto scoperto debbono necessariamente ricondursi nella categoria degli atti solutori e debbono perciò considerarsi revocabili. Muovendo dal rilievo che l'art. 7 delle Norme Bancarie Uniformi mentre attribuisce ad ognuna delle parti il diritto di esigere l'immediato pagamento di quanto sia comunque dovuto, prevede, tuttavia un "diverso accordo" tra le stesse, sostiene, giustamente, che occorre aver riguardo alla natura della operazione giustificativa dell'accreditamento e, quindi, delle eventuali disposizioni comuni alla stessa, per stabilire se ricorre il diverso accordo che consente di non considerare la somma versata sul conto quale copertura (parziale o totale) dello scoperto e di considerare quindi revocabile non già il relativo accredito, ma il pagamento effettuato (con la somma accreditata) dalla banca per conto del cliente in favore di un terzo beneficiario. Si parla in questo caso di operazioni bilanciate, di "utilizzo programmato della rimessa" atteso che le operazioni di accredito vengono effettuate da terzi o dal correntista a fronte di specifiche operazioni speculari a debito con disposizioni di prelevamento (assegni circolari, bonifici) e di pagamento a favore di terzi. Nelle ipotesi di operazioni bilanciate, in vero, in virtù degli accordi presi, non c'è alcun rientro per la banca, essendo il versamento finalizzato concordemente non già a ripianare, neppure in parte, il conto, ma a costituire una specifica provvista in funzione dell'ordine ricevuto ed accettato (Cass. 17-VII- 1997 n. 6998).

 

 

7. Le critiche all'orientamento giurisprudenziale della revocatoria delle rimesse.

 

L'orientamento giurisprudenziale, costante ed immutato da quasi venti anni, è criticato da un'ampia ed autorevole dottrina.

Si mette in evidenza, anzitutto, che l'interpretazione giurisprudenziale in tema di revocabilità delle rimesse comporta un trattamento più severo verso le banche, rispetto a quello riservato agli altri creditori in tema di revocabilità dei pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili ricevuti nel c.d. periodo sospetto. La revoca indiscriminata di tutte le rimesse affluite nei periodi caratterizzati da saldo a debito del correntista oltre i limiti dei "fido", consente alla curatela - si sottolinea - una pretesa restitutoria molto superiore, sotto il profilo quantitativo, alla entità dell'effettivo "rientro" ottenuto dalla banca: può infatti accadere che, essendo le rimesse compensate in tutto o in parte da prelievi o utilizzi, il "dentro" della banca si riveli notevolmente inferiore alla somma delle rimesse revocate - (Ricci, Operazioni di conto corrente bancario e revocatoria fallimentare: una proposta normativa in La revocatoria delle rimesse bancarie, Torino 7999, 109).

Secondo questa dottrina l'orientamento giurisprudenziale sarebbe frutto di una "forzatura" interpretativa che si manifesta tanto nel l'apprezzamento della realtà, quanto nella valutazione giuridica delle situazioni (Corsi, Introduzione, ibidem, 3).

Si rileva, con riguardo al primo aspetto, come il cliente che esegue un versamento sul proprio conto non intende di regola eseguire un pagamento, ma - fin tanto che il conto è aperto e ancorché abbia sconfinato dal credito accordatogli - intende piuttosto ripristinare una disponibilità; la banca, per parte sua, almeno sin quando rimette sistematicamente a disposizione del cliente le somme così introitate, manifesta tutt'altro che l'intenzione di soddisfarsi di un credito. In sostanza né l'imprenditore da un lato, né la banca dall'altro hanno la consapevolezza che il rapporto si svolga sulla base di prestiti quotidiani e di estinzioni di prestiti altrettanto quotidiane. La volontà delle parti è un'altra: l'imprenditore, seppure in difficoltà, continua ad operare usufruendo di uno strumento indispensabile (le operazioni in conto corrente) per l'esercizio della sua attività; la banca continua a consentire all'imprenditore di proseguire la gestione mettendo a sua disposizione un servizio essenziale, seppure consapevole delle difficoltà nelle quali versa il cliente. (Jorio, Riflessioni comparatistiche sull'istituto della revocatoria, in La revocatoria delle rimesse bancarie op. cit. p. 12).

Partendo da queste considerazioni si nega rilievo alla distinzione tra rimesse affluite su conto scoperto e rimesse affluite su conto assistito da apertura di credito, operata dalla giurisprudenza per attribuire alla rimessa carattere solutorio o ripristinatorio della provvista. Secondo questa dottrina sarebbe, invece, il comportamento della banca - al quale la giurisprudenza nega rilevanza nel caso di conto scoperto - con il recesso dal contratto e la richiesta di pagamento del dovuto, a far assumere alla rimessa carattere solutorio; ma ben potrebbe la banca, pur in presenza di uno scoperto di conto immediatamente esigibile, imputare la somma a ricostituzione della provvista anziché ad estinzione del debito. E l'imputazione data dalla banca alla rimessa discende dalla concreta movimentazione del conto corrente. Tutte le volte in cui la banca consente al correntista di disporre della rimessa effettuata per ulteriori prelievi, non ha evidentemente inteso esigere un credito peraltro esigibile. In sostanza, in presenza di uno scoperto di conto, la banca è ovviamente legittimata ad imputare la successiva rimessa a pagamento dello scoperto; ma è altrettanto libera di imputare la rimessa successiva al diverso titolo di reintegrazione della provvista riconsentendone al correntista il riutilizzo attraverso nuovi ordini. Conseguentemente - si rileva - la rimessa potrà avere o non avere natura solutoria a seconda che la banca decida di "rientrare" dallo scoperto ovvero decida di non esigere il credito e di imputare il versamento a ricostituzione della provvista consentendone al correntista il riutilizzo.

In definitiva, secondo questa dottrina, la revocatoria delle rimesse in conto corrente, da un lato, deve essere ammessa in tutte le ipotesi nelle quali il conto ha un saldo a debito del fallito, ma dall'altro, deve essere contenuta nei limiti dell'effettivo "dentro" ottenuto dall'istituto di credito: vale a dire, nei limiti entro i quali le rimesse (non essendo stata la provvista riutilizzata dal fallito) hanno effettivamente dato luogo ad una diminuzione del credito dell'istituto bancario. In questo caso, il "rientro" da parte dalla banca coincide con la differenza aritmetica tra il saldo corrispondente al massimo "scoperto" e il saldo del conto alla data di apertura della procedura concorsuale.

Vale la pena sottolineare che, questa dottrina, così come ricostruisce diversamente dalla giurisprudenza la disciplina in tema di revocatoria delle rimesse bancarie, così diversamente dalla giurisprudenza distribuisce l'onere probatorio tra la curatela e la banca convenuta in revocatoria. Secondo la Cassazione, "alla curatela fallimentare spetta la dimostrazione della sussistenza della rimessa, della sua effettuazione nel periodo sospetto e della scientia decoctionis dell'imprenditore poi fallito da parte della banca, mentre questa ultima ha, a sua volta, l'onere di provare, per escludere la natura solutoria del versamento, sia l'esistenza alla data di effettuazione di esso, di un contratto di apertura di credito, sia l'esatto ammontare dell'affidamento accordato al correntista alla medesima data (Cass. 26-2-1999 n. 1672).

Secondo chi critica l'orientamento giurisprudenziale, invece, dal momento che non può a priori presumersi né che una rimessa sia "solutoria" né che sia "ripristinatoria", non si può accollare alla banca convenuta l'onere di superare la presunzione, provando che la rimessa aveva una natura diversa da quella presunta; per questa dottrina, "la dimostrazione del compimento, da parte del correntista poi fallito, di un atto revocabile (cioè del fatto posto a base della domanda giudiziale) (dovrebbe) consiste(re) nella dimostrazione che vi è stata una rimessa solutoria (e non semplicemente una rimessa) perché solo così è possibile la sua equiparazione ai "pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili", e quindi l'applicazione dell'art. 67, comma 2 L.F." (Gio. Tarzia, L'onere della prova nella revocatoria delle rimesse su conto corrente bancario, in Fallimento 1995, 63 segg.).

 

 

8. La tesi preferibile per la identificazione delle rimesse revocabili

 

Se il tema della revocabilità delle rimesse ha quale unico referente normativo la norma che ammette la dichiarazione di revoca dei "pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili" compiuti entro l'anno anteriore al fallimento, in termini formali il problema è di stabilire se la rimessa affluita sui conto corrente con saldo a debito del correntista, è sempre e necessariamente pagamento, oppure la volontà delle parti può assegnare a tali rimesse uno scopo diverso dal pagamento del debito.

Al riguardo va rilevato che benché il pagamento venga considerato sulla base dell'art.1191 C.C. un "atto dovuto", al quale non è essenziale un animus solvendi inteso come coscienza del vincolo e volontà di adempierlo, si riconosce, tuttavia, da parte della dottrina dominante che il "versamento" può essere "parte costitutiva" di un fatto diverso dal pagamento, ove risulti la volontà delle parti di rivolgerlo ad uno scopo diverso dal pagamento del debito (Oppo, Adempimento e liberalità, Milano 7947, p. 385 ss.; Giorgianni, voce "Pagamento" in Nuovo Digesto pp. 414 ss.).

Si riconosce, in sostanza, che la volontà delle parti possa impedire che quella prestazione eseguita dal debitore si identifichi con quella dovuta, che il "versamento" da parte del debitore costituisca pagamento.

Con riguardo alle rimesse affluite sul conto corrente con saldo a debito del correntista, il carattere solutorio, pur implicito nel "versamento", può essere allora escluso ove risulti la volontà delle parti - banca e correntista - di rivolgere il "versamento" ad uno scopo diverso dal pagamento. E tale volontà, in queste ipotesi, ben può risultare dallo stesso comportamento della banca e cioè dalle risultanze del conto corrente (A. Maffei Alberti, Conto scoperto e rimesso revocabile, in La revocotoria delle rimesse bancarie cit. p. 21). Che la volontà possa essere desunta, oltre che da dichiarazione espressa, da facta concludentia, è d'altronde principio accolto dalla giurisprudenza sia pure per sostenere la revocabilità delle rimesse affluite su conto passivo. Si è ritenuto, infatti, che i versamenti effettuati su conto corrente "passivo" entro i limiti della apertura di credito possono essere revocati anche quando " ... con accertamento ex post, risultano avere concretamente e definitivamente concorso a ridurre il debito sorto a carico del cliente verso ao banca in conseguenza dell'utilizzazione dei fido" (Cass. 2 1 -VII- 1984 n. 3637).

In altre decisioni, poi, si è ammessa la revoca dei versamenti confluiti su conti debitori, ma non scoperti, nel periodo sospetto quando, pur in mancanza di un recesso formale della banca, quest'ultima abbia di fatto bloccato l'utilizzazione del conto nel senso che al correntista non sono stati più consentiti utilizzi, ma solo versamenti (Cass. 4-XII-1996 n. 70816; Cass. 3-VII- 1987 n. 5819).

In sostanza, secondo la giurisprudenza, le rimesse affluite sul conto passivo non sono revocabili solamente se alla rimessa abbia fatto seguito una successiva utilizzazione della disponibilità della provvista creata dal correntista. Viene così, in definitiva, valorizzato il comportamento delle parti per l'attribuzione alla rimessa affluita su conto passivo carattere ripristinatorio della provvista o solutorio. Al comportamento delle parti, del resto, la giurisprudenza dà rilevanza nell'escludere la natura solutoria delle rimesse affluite su un conto scoperto nell'ipotesi di operazioni bilanciate, già considerate, nelle quali il versamento risulta finalizzato dalle parti non già a ripianare, sia pure in parte, il conto, ma a costituire una specifica provvista.

La rilevanza attribuita al comportamento delle parti per la qualificazione della rimessa come solutoria o ripristinatoria della provvista non comporta, tuttavia, modifiche nella distribuzione dell'onere probatorio tra curatela e banca convenuta in revocatoria - come affermato dalla Suprema Corte. Ed invero l'attribuzione alla banca dell'onere di provare che la rimessa affluita sul conto corrente con saldo a debito del correntista non aveva carattere solutorio discende dalla "dimensione obbiettiva e implicita di attívità solutoria" assegnata "alla prestazione congrua al contenuto dell'obbligo dell'ordine giuridico che ne impone il compimento", proprio perché "la prestazione del dovuto è pagamento....sinché non è dalla volontà delle parti rivolta ad altro scopo" (Oppo, op. cit. p. 387).

Comporta, invece, modifiche del contenuto dell'onere probatorio posto rispettivamente a carico della curatela e della banca, nel senso che alla prima spetta, oltre alla dimostrazione della sussistenza della scientia decoctionis dell'imprenditore poi fallito da parte della banca e della effettuazione della rimessa in periodo sospetto, anche la prova che la rimessa è affluita sul conto corrente con saldo a debito del correntista, mentre alla banca, per escludere la natura solutoria del versamento, sarà sufficiente provare, anche attraverso le risultanze del conto corrente, la volontà delle parti di rivolgere il versamento ad uno scopo diverso dal pagamento.

 

 

9. Garanzie "bancarie" e revocatoria fallimentare

 

L'esercizio della funzione creditizia presenta per la banca il rischio della mancata restituzione del capitale e del mancato pagamento degli interessi.

La capacità di giudicare la meritevolezza del programma imprenditoriale dell'affidato sia nel momento dell'affidamento sia nel corso del rapporto creditizio rappresenta sicuramente il modo più efficiente per ridurre l'operatività del rischio creditizio. Sennonché la banca ha una conoscenza dell'impresa che chiede di essere affidata molto più limitata di quella che possiede la stessa impresa che richiede il finanziamento (c.d. asimmetria informativa). La relativa opacità della impresa rende difficile la valutazione del rischio di credito. D'altro canto, l'approfondimento della conoscenza, il vaglio prospettico della capacità di reddito dell'impresa richiedente, se determinano un beneficio per la banca in termini di valutazione più corretta del rischio, richiedono costi di istruttoria e, soprattutto, capacità professionali delle quali le banche non sempre risultano attrezzate.

Le banche hanno inteso compensare lo svantaggio informativo con la richiesta di garanzie soprattutto extra-aziendali, atteso il limitato livello di patrimonializzazione delle nostre imprese.

Per le garanzie extra-aziendali non sorge, è chiaro, alcun problema di revocabilità, dal momento che incidono sul patrimonio di terzi.

Quanto alle garanzie reali concesse alla banca dall'impresa poi fallita, certamente la banca si trova in condizioni diverse dagli altri creditori. Il che si deve dire non tanto, attesa la marginalità della operazione, perché si prevede una disciplina speciale per il credito su pegno esercitato ai sensi dell'art. 48 T.U. dalle banche che abbiano avuto la necessaria autorizzazione e che resta disciplinato dalla legge del 1938 che prevede l'esclusione dall'azione revocatoria dell'art. 67 L.F..

La deroga più importante, invero, è rappresentata dalla non revocabilità delle ipoteche accese a favore della banca per operazioni di credito fondiario (ed edilizio), agrario e peschereccio ed alle opere pubbliche, nonché dei relativi pagamenti.

Si discute in quale fattispecie debba ricondursi l'ipotesi in cui il finanziamento derivante dalla concessione di un mutuo fondiario venga utilizzato per rientrare dall'esposizione debitoria del mutuatario verso la banca mutuante. L'effetto di questa operazione è evidente: al credito chirografario da scoperto di conto corrente viene a sostituirsi il credito ex mutuo assistito da garanzia ipotecaria.

Sembra preferibile la tesi in base alla quale l'estinzione del debito attraverso l'impiego di somme provenienti dal nuovo finanziamento ipotecariamente garantito, con conseguente acquisto del diritto di prelazione in capo alla banca, configura una situazione consentita, almeno in astratto, dall'ordinamento; situazione che può essere bensì comparata, sotto il profilo dell'efficacia del pagamento o della garanzia, ai sensi degli artt. 67, 2° comma L.F. e 2901 C.C.. Con conseguente revoca del versamento proveniente dall'erogazione del finanziamento.

Merita, in fine, di essere esaminato, sia pure rapidamente, il problema della revocabilità di alcune operazioni ricorrenti nella prassi bancaria aventi funzione di garanzia: la cessione di credito a scopo di garanzia e il mandato irrevocabile all'incasso.

La prima consiste nel negozio con il quale il credito viene trasferito al fine di garantire il cessionario dal rischio di inadempimento da parte del cedente-finanziato. In base a tale accordo, se il cedente adempie, gli effetti del trasferimento del credito vengono meno (essendo la cessione come sottoposta ad una condizione risolutiva); altrimenti, la titolarità del credito rimane in capo al cessionario, che ha l'obbligo di rimettere al cedente l'eventuale differenza tra l'ammontare del credito riscosso dal debitore ceduto e quanto dovutogli dal cedente.

Nella cessione in garanzia il cessionario può rivolgersi indifferentemente al cedente o al ceduto e può pretendere il pagamento da quest'ultimo anche prima della scadenza del debito principale.

Essendo la figura in esame utilizzabile per finalità solutorie e di garanzia impropria, ai fini della disciplina applicabile è necessario individuare l'effettiva volontà delle parti, in quanto in entrambe i casi potrebbe praticamente accadere che la banca si soddisfi sul credito ceduto. Secondo autorevole dottrina, la contestualità è indice, in linea di principio, di una funzione di garanzia, come pure il compimento della cessione, a fronte di un debito non scaduto, mentre alla cessione collegata ad un debito scaduto va attribuita funzione solutoria, salva la prova che il cedente abbia voluto costituire una tardiva garanzia (Bigiavi, Cessione di contributi statali per la ricostruzione e revocatoria fallimentare dei pagamenti, in Banca, borsa, titoli di credito 1958, 1, 287 ss.). Anche secondo la giurisprudenza, allorché vi è contestualità cronologica tra nascita del debito verso la banca e cessione del credito, la stessa sarà in garanzia (Cass. 12-VII- 1997 n. 7794 in Fallimento 1992, 27, Cass. 3-2-1987 n. 950 in Diritto fallimentare 1987, n.692).

In questo caso, l'eventuale revocatoria dell'atto di cessione potrà essere fatta valere unicamente ai sensi dell'art. 67, c. 2 L.F. (revoca di atti costitutivi di un diritto di prelazione per debiti contestualmente creati), mentre ove alla cessione venga attribuita funzione solutoria, la stessa potrà essere revocata ai sensi dell'art. 67, c. 1 n. 2 L.F. quale mezzo anormale di pagamento.

Con l'altra operazione, il mandato irrevocabile all'incasso, il correntista affida alla banca l'incarico di curare l'incasso dei crediti di cui egli è titolare e, una volta portato in compensazione il credito da scoperto di conto corrente con il debito ex mandato, accredita al cliente l'eventuale residuo.

A differenza che nella cessione del credito, la tutela del creditore non si realizza qui attraverso il trasferimento del credito: al mandatario in rem propriam viene conferita semplicemente la legittimazione alla riscossione, mentre titolare del credito rimane il mandante, che, a rigore, può chiedere direttamente il pagamento al proprio debitore o, addirittura, alienare a terzi il credito (salvo, naturalmente, dover poi rispondere al mandatario delle violazioni del contratto con questo stipulato).

La giurisprudenza è sempre più incline a ravvisare nell'operazione in esame un mezzo anormale di pagamento. Il conferimento di un mandato irrevocabile all'incasso, "con contestuale facoltà di utilizzare le somme incassate per l'estinzione di un credito (benché non ancora sorto) vantato dal terzo nei confronti del mandante anche attraverso la compensazione delle rispettive ragioni creditorie - si afferma - producendo effetti sostanzialmente analoghi a quelli della cessione dei crediti, ha, oltre allo scopo di garanzia, una funzione essenzialmente solutoria, risolvendosi nella precostituzione di un mezzo certo di pagamento in favore del mandatario" (Cass. 4-XI-1998 n. 11057 in Fallimento, 1999, p. 1196; nello stesso senso Cass. 2-IX-1998 n. 8703, ivi, p. 1189).

Da parte della dottrina s'è rilevato che mentre la natura solutoria del mandato non pare facilmente contestabile nel caso in cui la procura ad incassare venga rilasciata in presenza di un debito scaduto, non altrettanto può dirsi con riferimento a contratti stipulati contestualmente alla concessione del finanziamento o, addirittura, a crediti che debbano ancora venire ad esistenza (Ambrosini, La revocatoria fallimentare delle garanzie, Milano 2000 p. 189). Secondo la dottrina, varrebbero per il mandato irrevocabile all’incasso, le stesse considerazioni svolte in tema di cessione del credito a scopo di garanzia, e cioè che al mandato irrevocabile all'incasso contestuale al sorgere del credito (e, a fortiori, a quello che addirittura lo precede), va attribuita, in linea di principio, funzione di garanzia; eccezion fatta per il caso in cui il pactum di compensando si riferisca non soltanto a crediti coevi o futuri, ma indistintamente a tutti i crediti vantati dalla banca, e quest'ultima invochi la compensazione rispetto a crediti già esistenti della conclusione del mandato al momento

 

 

10. Aspetti probatorli relativi alla conoscenza dello stato di insolvenza da parte delle banche

 

La dimostrazione dell'effettiva conoscenza dello stato di insolvenza dell'imprenditore da parte del terzo convenuto in revocatoria, può avvenire - come si ammette comunemente - soltanto indirettamente, tramite una dimostrazione sul piano della logica concatenazione di eventi e condotte del soggetto stesso che, in base al criterio di normalità assunto a parametro di valutazione, consente la prova presuntiva della conoscenza personale di eventi, altrimenti indimostrata e indimostrabile (Cass. 7-VIII- 1997 n. 7298).

L'orientamento giurisprudenziale è nel senso di valorizzare, ai fini della prova presuntiva sulla conoscenza dello stato di insolvenza, lo status professionale del terzo che, nel periodo sospetto, abbia avuto causa dall'imprenditore poi fallito (Cass. 27- IV- 1998 n. 4277).

Ora, non può contestarsi che gli istituti di credito dispongono di elementi e strumenti particolari per venire a conoscenza delle condizioni economiche e patrimoniali dei soggetti con cui vengono in rapporto.

La possibilità per una banca di avere informazioni sulla situazione patrimoniale dei propri debitori in misura senza dubbio superiore a quella comune, e le specifiche conoscenze tecniche a sua disposizione, possono valere a renderla edotta che eventuali (anche minimi) segni esteriori di crisi sono in realtà sintomi di insolvenza; tuttavia - precisa la Suprema Corte - non servono a dimostrare che una banca, in quanto tale, ha necessariamente la conoscenza effettiva dello stato di insolvenza della propria debitrice; ad escludere la necessità di accertare la sussistenza di elementi sintomatici della crisi dell'imprenditore, da valutare poi alla luce della specifica qualità dei creditore-banca; a determinare addirittura l’insorgenza, nella banca, dell'onere di dimostrare in positivo la propria inscientia decoctionis del cliente, pur nel quadro dell'art. 67, secondo comma L.F. (così Cass. 12-V-1998, n. 4765; nello stesso senso Cass. 7304 del 1997).

In sostanza secondo il più recente orientamento giurisprudenziale la qualità del terzo convenuto in revocatoria, quale indice della disponibilità di specifiche conoscenze tecniche e di possibilità di accesso ad informazioni privilegiate non può consentire di ritenersi provata la conoscenza della banca dello stato di insolvenza del cliente poi fallito sulla base della diligenza dell'istituto bancario nell'utilizzare tali mezzi di conoscenza. Diversamente - rileva la dottrina - si assisterebbe ad un uso distorto dell'istituto delle presunzioni risalendo non dal fatto noto a quello ignoto, ma dal fatto conoscibile a quello ignorato (Bongiorno, La prova della conoscenza dello stato di insolvenza nelle revocatorie dei pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili in Dir. Fall. 2000 p. 58° ss.).

Inoltre - si fa notare in dottrina - attribuire un rilievo decisivo, ai fini del l'accertamento dell'elemento soggettivo, ad un ipotetico modello di condotta cui dovrebbe adeguarsi la banca che entra in contatto con il debitore non ancora dichiarato fallito, significa gravare l'istituto di credito di un onere di diligente ricerca delle informazioni sulle condizioni patrimoniali della controparte e di prudente valutazione dei dati raccolti che non pare rinvenibile né nella disciplina legale della revocatoria fallimentare, né nella disciplina civilistica dei mezzi di prova (Munari, Conoscenza e conoscibilità dello stato di insolvenza in Giur. Comm. 1997, 1, 731 ss.).

A queste considerazioni, che ritengo condivisibili, aggiungerei che la ricerca di informazioni sulle condizioni patrimoniali dell'affidato comporta in ogni caso, come si è già avuto modo di sottolineare, un costo al quale la banca può ritenere di sottrarsi con la richiesta di una garanzia che le assicuri, comunque, di realizzare il proprio credito e le eviti ogni indagine sulla meritevolezza dell'affidato e ogni attività di monitoraggio nell'esecuzione del rapporto.

Una più sicura efficacia probatoria, al fine della dimostrazione della conoscenza dello stato di insolvenza, va sicuramente riconosciuta a quegli elementi legati al concreto andamento del rapporto bancario: così, accanto a quello più eloquente, della revoca dei fidi accordati da parte della banca (talvolta in forme non esplicitamente dichiarate, come quando ciò avvenga di fatto, essendo consentito al cliente la sola movimentazione del conto al "rientro", con una sostanziale revoca della convenzione di assegno, o attraverso il "congelamento" del conto scoperto e l'apertura di un nuovo conto, mantenuto costantemente attivo, su cui la banca fa affluire tutte le rimesse ed i bonifici del cliente, all'esclusivo fine di neutralizzare il rischio revocatorio), possono assumere rilievo le stesse modalità operative del conto corrente, con particolare riferimento al tasso di interesse praticato al correntista, tenuto conto del tasso di interesse medio praticato nello stesso periodo dai principali istituti di credito su fidi a clienti con maggiori garanzie di solvibilità (prime rate) (sensibile aumento della percentuale degli insoluti dei crediti anticipati, modifica qualitativa del foglio emesso a suo carico).

Sempre con riguardo all'elemento soggettivo va segnalata una recente sentenza del Tribunale di Milano (25-VI-1998 in Banca, borsa e titoli di credito 2000, 11, 188) nella quale si è ritenuto non risolutivo ai fini della prova della conoscenza dello stato di insolvenza la circostanza che la banca convenuta in revocatoria avesse lasciato protestare quattro assegni emessi allo scoperto dal correntista sul rilievo, ritenuto invece decisivo, che al momento della chiusura, il conto presentava una scopertura superiore a quella raggiunta in passato, per cui "dal punto di vista economico sostanziale i dati riportati non consentono certamente di affermare che la banca sia riuscita a soddisfare le proprie ragioni creditorie in pregiudizio della par condicio, anzi bisogna ammettere che s'è verificato esattamente il contrario".

Questa decisione trova un analogo precedente in una sentenza del Tribunale di Napoli (Tribunale Napoli 18-X-1985 in causa Achille Lauro Soc. in amministrazione straordinaria e Banca Nazionale del Lavoro), che ha affermato che al comportamento della banca deve essere attribuita valenza diversa, ai fini della prova della scientia decoctionis, a seconda che la banca persegua la "strategia del recupero" ovvero 'la strategia del credito".

In effetti nei casi in cui la banca non attui affatto una strategia di rientro dalla scopertura, ma consenta al correntista di riutilizzare gli importi delle rimesse affluite sul conto corrente con saldo a debito del correntista, non si è in presenza di un pagamento revocabile come già si è rilevato.

 

 

11. La revocatoria fallimentare nei progetti di riforma della legge fallimentare

 

La disciplina della revocatoria fallimentare ed i diversi possibili modi di intendere la portata - si sa - rispecchiano le differenti concezioni sulle soluzioni della crisi dell'impresa.

Il rigore dei principi cui è ispirata la revocatoria fallimentare è frutto di una visione del fallimento come strumento con cui attraverso la liquidazione del patrimonio del fallito si liberano risorse suscettibili di un reimpiego più produttivo con vantaggio per l'intero sistema economico e rivela un atteggiamento punitivo nei confronti dei terzi che hanno intrattenuto rapporti con l'imprenditore poi fallito consentendone lo stato di insolvenza.

Oggi questa visione è dei tutto superata; ha presente un modello di impresa non più attuale, nel quale era pensabile che attraverso la liquidazione del patrimonio del fallito potesse giungersi ad una soddisfacente copertura del passivo. Oggi, invece, è la conservazione dell'impresa - quando, ovviamente, non si è disgregata - a rappresentare un sicuro vantaggio per tutti i soggetti coinvolti nella crisi dell'impresa.

In linea con il sistema industriale attuale in cui il valore dell'impresa si sostanzia nel suo funzionamento, nei progetti di riforma della legge fallimentare la soluzione tipica della crisi dell'impresa e il risanamento, per la cui più efficace realizzazione è prevista una procedura "anticipatoria" di quella "unitaria di insolvenza", mentre la liquidazione viene configurata come evento residuale ed eccezionale e va attuata in caso di evento infruttuoso del processo di risanamento o quando questa risulta impossibile da realizzarsi.

Se diversa - da quella attuale - è la soluzione che viene proposta per la crisi dell’impresa, non può che essere diversa anche la disciplina che viene proposta per la revocatoria.

Nei progetti di riforma è prevista anzitutto la riduzione dei termini del periodo sospetto alla metà di quelli attualmente stabiliti dall'art. 67 L.F..

La revocatoria, poi, viene concepita non quale strumento utilizzabile per ripartire il costo sociale dell'insolvenza tra il più ampio numero di soggetti che abbiano contrattato con il fallito, bensì quale rimedio alla frode del debitore nei confronti del ceto creditorio; si prevede, infatti, la "esclusione della revocabilità degli atti a titolo oneroso e dei pagamenti dei debiti liquidi ed esigibili, salvo quando siano effettuati allo scopo di favorire alcuni creditori in danno di altri".

Sono sottratti alla revocatoria gli atti dell'ordinaria gestione.

Così concepita, la revocatoria non diviene un deterrente alla continuazione dell'impresa e non è di ostacolo al perseguimento delle opportunità di conservazione delle attività produttive in difficoltà: i fornitori continuano a fornire e il settore creditizio continua a consentire le normali operazioni, avendo la certezza che solo gli atti preferenziali saranno repressi.

Questa del resto, è la funzione che le recenti legislazioni di altri paesi europei attribuiscono alla revocatoria fallimentare. E il raffronto tra la nostra disciplina normativa della revocatoria e l'interpretazione che ne viene data, da un lato, e le indicazioni di segno opposto che ci derivano da altri ordinamenti a noi vicini, dall'altro, pone in risalto "ciò che può ormai essere considerato, se non un'anomalia, certamente una posizione minoritaria nell'ambito delle moderne legislazioni sull'insolvenza" (Jorio op. cit. p. 16).